GIORGIO TONTI

GIORGIO TONTI

dal 13 settembre 2006 al 30 settembre 2006

Libreria Bocca - Galleria Vittorio Emanuele II 12, 20121 Milano

Ambiguo. Titolo programmatico quanto mai altri, quello d’un’opera del 2000 indica con sintesi perfetta la natura del lavoro pittorico di Giorgio Tonti. Perché, anzitutto, si tratta di un lavoro nomade e in limine, quasi maniacalmente attento a non impaniarsi nelle rules and regulations del sistema artistico, ogoglioso e forte di una selvatichezza che significa, per l’artista, facoltà di non doversi confrontare mai con il dver essere dei gusti decennali, con l’accattonaggio mondano della cultura che si desidera ufficiale. Nomade, anche perché cresciuto su un senso di libertà non retoricamente esercitato, attuato scelta dopo scelta come confronto limpido, incoatto, con quel sentirsi artista che, da sempre, accompagna Tonti.

Tonti è stato per anni grafico e pubblicitario affermato; persona, dunque, ben consapevole di quanto l’immagine contenga e sprigioni la propria "distinzione", per dirla alla Bourdieu, e di quanto poco le occorra, soprattutto, per piacere. E proprio quest’animo professionale gli ha consentito di individuare e preservare lucidamente la dimensione del creatore, dell’avventuriero felice dell’immagine autre, separata da quella del creativo. André Villers, grande fotografo sodale di Picasso, ama raccontare il consiglio prezioso che gli diede Jean Cocteau: "Ciò che ti rimproverano coltivalo, perché quello sei tu". Ecco, anche nel caso di Tonti si può leggere tutto il corso pittorico non come estensione ed espansione del suo sapere grafico, bensì come il wild side, l’improprio, lo scorretto, l’emergenza formale e stilistica inflessibile, rispetto alla norma preconfetta: tutto ciò che ti rimproverano, appunto, forse è la tua arte. E’ così sin dagli inizi, a ben vedere. Da quando, per intenderci, Franco Passoni riconosceva nei suoi dipinti – correva l’anno 1966 – "larghe campiture, ricche di vibrazioni luminose e maturate insieme alle ‘forme’, apparentemente semplici", ma soprattutto l’aspirazione a "staccarsi da un rigorismo puramente teorico, per accostarsi più spontaneamente ad una sintesi di valori della pittura che siano un incontro tra la realtà esteriore e la realtà emotiva interiore".

Dunque Tonti, mossi i primi passi da un orizzonte che a quelle date aveva ancora senso indicare come figurativo, agisce per via di sintesi e decantazione, quindi effettivamente astraendo, sino a giungere a una sorta di primarizzazione dell’immagine che prende a valere per se stessa, nutrita di pattern e insieme di umori simbolici ed evocativi, dimora e corpo di un colore trepido, sedimentato come coagulo dello stream affettivo. E’, questa, una scelta stilistica, certo. Ma l’artista vi fa confluire da subito altre riflessioni, anche. All’atto stesso in cui le sue immagini nascono, e in cui egli prende a guardarle sulle pareti delle gallerie dove tiene le prime personali, non può fare a meno di riflettere sulle "regole d’ingaggio" dell’artistico nei confronti del pubblico. Da comunicatore qual è, Tonti non può non riconoscere il potere carismatico della galleria e della cornice, la liturgia dell’olio su tela, la mistica implicita e catafratta di quella porzione sacrata di spazio; non può, d’altronde, non avvertire quanto la mitologia del prezzo faccia parte dell’habitus dell’opera, snaturandone profondamente, lo si voglia o no, la sostanza. Certo, sono le medesime riflessioni che con ben altra eco si vanno svolgendo oltre Atlantico da parte di Warhol e compagni, e in Europa da parte dei Vasarely, Munari, eccetera.

L’approccio di Tonti è, tuttavia, intimamente differente. Egli non ha retaggi duchampiani da esercitare, e neppure proclami di morte dell’arte nell’estetizzazione sociale, secondo l’allora diffusa falsata interpretazione hegeliana. Egli si propone, assai semplicemente, di dar luogo a un prodotto artistico forte della propria idea al di là delle auraticità mondane, una sorta di coagulo concettuale che possa essere posto di fronte allo spettatore senza alibi di lettura, per ciò che è: una idea fatta visione, e basta. Egli mira, dunque, a salvaguardare la sostanza dell’opera, dell’idea stessa di opera, a scapito delle formalizzazioni apparenti. E’ da tutto ciò che nasce il progetto di arte seriale Studio Zero, attivo a Milano per molti anni, caso davvero singolare nel mondo non sempre decifrabile dell’arte moltiplicata. Al di là delle implicazioni operative, che sarebbe di gran momento analizzare in una riflessione finalmente storicizzata su quelle vicende, importa in questa sede osservare quanto ciò influisca sul corso espressivo del nostro. Dopo una fase in cui l’immagine si prosciuga in un gioco compositivo di shapes biomorfe, del quale il teatrino metafisico polimaterico di Silenzio è l’esempio più alto, in lavori come Venezia, e soprattutto Paesaggio, Tonti ritrova il gusto per un ritorno saporoso, libero, sensuale anche, all’organico, fatto d’un tramarsi grafico teso e sintetico, nel quale avverti precisa la riflessione sulla durata, sulla temporalità interna del fare l’opera, e su quella specifica dell’opera stessa.

Scrive Tonti nel 1976 presentando la propria mostra intitolata sintomaticamente Figurazione, dello "studio su una figurazione ottenuta per segni rapidi come una scrittura, che permettano, ad esempio, di disegnare l’uomo e contemporaneamente descriverne i caratteri salienti, le tensioni interiori. Lo stesso vale per le cose, gli oggetti, radiografati più che rappresentati, ‘scritti’ più che disegnati". Una grafia sintetica, intensiva non corsiva, è l’elemento decisivo della scelta di Tonti, il quale intravede in ciò anche la possibilità di ricostituire quanto meno per tracce e sentori una narratività possibile, un clima di racconto. Torna alla mente, a questo proposito, la celebre frase di Paul Valéry a proposito del "dare la sensazione senza la noia di doverla trasmettere".

Sono questi d’altronde gli elementi che ritroviamo, dopo una ulteriore lunga stagione di assenza espositiva, nelle serie forti di dipinti che nascono dagli anni Novanta.

Sono, dapprima, articolazioni sempre più complesse e turgide di grafie, che da sintetiche si fanno costitutive, come nervature fisiologiche d’un corporeo ora risentito, cercato nelle sue sostanze più intime. Tonti riflette ora sul punto d’emergenza dell’identità della figura, adottando come punti di triangolazione Van Gogh (Una stanza per Van Gogh) e per altri versi Bacon, in opere come Ritratto di personalità; è il Bacon che racconta: "quello che intendo fare è ricollocare il soggetto nel sistema nervoso, renderlo con la stessa intensità con cui lo si incontra nella vita". Tale approccio, nel quale l’artista ritrova le frequenze di un colore acido, disagiato, virato a sottrarre compiacimenti sensibilistici in favore dell’auscultazione oscura della vitalità segreta della figura, conduce, in lavori come Grande casa, a ritrovare il punto di definitiva autonomia dell’immagine pittorica, la cui referenzialità è matter del fare, non garanzia estetica né, tanto meno, di qualità espressiva.

"L’artista interroga sé e il mondo con un’ansia di pulizia, d’etica rigorosa: vuol partire da forme primarie, da segni primari, da colori primari. Ogni tentazione estetica, ogni raffinatezza esecutiva è sentita come disturbante, come tentativo di barare al gioco esistenziale". Così Silvia Venuti, nel 2002, a dire del corso ultimo di Tonti, il momento del passaggio da questo figurare proliferante verso sintesi ulteriori. Sono figurazioni sintetizzate nella chiave di una elementarità dagli umori simbolici; insieme, sono strutturazioni forti e precise dell’immagine, come per naturale e schiarita architettura. Sono visioni di soglie e di passaggi, una sorta di catalogazione primaria del mondo attraverso le sue forme sorgive. Il segno, ora, torna alla propria primitiva efficacia sintetica, scandisce spazi di filigrana geometrica nei quali si sedimenta un colore definitivamente virato, ora, in toni disagiati; un colore brusco, inasprito, le cui consistenze crude si erigono come spalti all’occhio, a ragionare su una bidimensionalità vagamente araldica e, più, da intonaco. Tonti davvero scrive, ora, forme e figure. Davvero le ritrova come idee fatte visione, e insieme corpi di pittura, autonomi e autorevoli. Nulla concede a idee pastorizzate d’estetico, interrogandosi piuttosto sulla possibilità che la pittura preserva, nonostante tutto, di pronunciare la sostanza del mondo, e le emozioni d’uno sguardo pensante.

Sono quadri del tutto inattuali, certo, che non conoscono il proprio ubi consistam nelle onde educate e artificiose del dibattito artistico. Ma proprio per ciò sono quadri veri, che occorre guardare con i propri occhi, senza gli ausilii del gusto. E che ci dicono d’un corso in cui l’artista intende inoltrarsi ulteriormente, forte della propria lucida libertà di fare.

Flaminio Gualdoni


Nato a Milano. Scuola d’Arte del Castello Sforzesco di Milano. All’età di venti anni vince un premio per il disegno al “Premio Diomira”. Sempre a Milano volge l’attività di pittore parellelamente a quella, molto nota ed apprezzata, di grafico. Nel 1964 inizia l’attività espositiva a Varese che continua con personali poco frequenti ma allestite sempre in occasione di sperimentazioni o innovazioni della propria pittura. Nel 1968 fonda a Milano lo Studio zero  tra i primi in Italia a realizzare e diffondere arte seriale. Svolge una intensa attività nel campo dei “multipli” e della grafica realizzando opere per lo studio Zero.  Sempre con Studio Zero, partecipa ad esposizioni di grafica ed arte seriale a New York, Caracas, Parigi, Roma, Francoforte e Tokio. Dal 1983 sospende ogni attività espositiva per dedicarsi esclusivamente al perfezionamento del proprio “linguaggio visivo” attraverso un intenso lavoro nel suo studio. Riprende ad esporre nel 2002.

Libreria Bocca sas di Lodetti Giorgio e C. PIVA 08041150155 REA 1195580
Galleria Vittorio Emanuele II 12, 20121 Milano – Italy libreriabocca@libreriabocca.com
tel. 02.86462321 02.860806 - fax 02.876572